mercoledì 6 novembre 2013

Il Tramonto dell'Euro

Mercoledì 6 Novembre 2013


il 13 Maggio 2013

Moneta Unica e Democrazia in Europa






Alberto Bagnai, professore associato di Politica Economica e blogger (Gufynomics), in tempi non sospetti sosteneva, inascoltata Cassandra, quanto oggi la crisi porta alla luce, ma, nell’era del liberismo sfrenato in cui già John Maynard Keynes è messo in soffitta, per non citare altri, certe teorie apparivano troppo strampalate per essere prese in considerazione, nonostante l’ortodossia dell’autore. Avvincente come un romanzo, quest’opera affronta una questione che alla fine riguarda tutti da vicino perché attinente i nostri interessi: il lavoro, i soldi, i prezzi, la bolletta, le tasse, l’energia, la pensione.…insomma il nostro vivere quotidiano. Il “senso comune”, quello della gente oberata dalla crisi, sentenzia implacabile da tempo: “E’ tutta colpa dell’euro…”.

Il neo Presidente del Consiglio, proprio in questi giorni, ha detto davanti ad Hollande che “se l’Europa è vista come matrigna,…si trasforma in un grande problema democratico che porta all’ingovernabilità. L’Europa capisca, i leader europei capiscano, il rischio di una sovranità che è profondamente collegata alla percezione che i cittadini hanno..di una Europa che frustra le opportunità delle persone”. Che crea povertà, direi io più esplicitamente! Bene, Bagnai ne “Il tramonto dell’euro” dà un senso alla sentenza della “gente comune” ed una spiegazione alle tarde preoccupazioni di Enrico Letta.


La critica di Bagnai è radicale, non lascia scampo all’euro. Esso è definito espressione di “valori antidemocratici..…moneta di nessuno Stato, e quindi non… moneta”. “L’Europa non è l’euro”, dice l’autore, ma asserisce al contempo quanto “l’integrazione economica europea sia un valore da perseguire”. Così rende giustizia all’idea di una Europa dei popoli sovrani, integrati culturalmente, socialmente ed economicamente in una unione politica degna di questo nome, gli Stati Uniti d’Europa. Perché, attenzione, non è vero, come si vuol far credere, che criticare il sistema monetario costruito attorno all’euro significhi essere antieuropeisti, anzi!


Quindi diviene determinante nell’analisi comprendere e smontare i luoghi comuni creati e ripetuti da chi è deputato a creare le idee dominanti dette e rimbalzate dai media. Il “luogo comunismo”…”che ha ucciso le menti di milioni d’italiani…una gigantesca menzogna” che usa mezze verità. Insieme di falsi, o imprecisioni, che creano l’ideologia dell’Eurozona così come sin qui concepita. E da qui i tanti stereotipi sulla voglia di lavorare e via a seguire, e le frasi fatte stile “Bignami” del tipo “svalutare è immorale”, “la Germania è la locomotiva dell’eurozona”, “lo stato è sempre inefficiente”, ecc. Luoghi comuni con punte di verità da riportare nella giusta proporzione ma utili ad occultare il nodo del problema: i fondamenti del sistema monetario.


Infatti, il libro mette in risalto come la teoria economica non vedesse nell’Europa una Optimum Currency Area (OCA) , un’Area Valutaria Ottimale, a causa degli squilibri economici, e non solo, esistenti tra le diverse regioni. Per cui la decisione forzosa assunta solo sul piano politico di avere un’unica valuta è stata sicuramente foriera di prevedibili catastrofi. La strada giusta sarebbe dovuta essere, o potrebbe ancora essere, l’integrazione dei vari sistemi europei: scuola, fisco, mercato del lavoro, sindacati, welfare, standard di cittadinanza europea, ecc. Il processo è stato inverso confidando che attorno alla moneta unica si sarebbe coagulato tutto il resto. Uscire dall’euro ha indubbiamente un costo, sicuramente inferiore a quello di restarci, ma riporta allo Stato “sovranità e democrazia, riprendendo il controllo della politica valutaria” che significa anche poter svalutare per rilanciare le esportazioni e quindi le imprese e l’occupazione. Per capirci, l’euro, moneta forte, consente a chi la detiene di pagare pochissimo una bella vacanza a Sharm el-Sheik in un Hotel a cinque stelle, ma non consente alle imprese italiane di esportare neanche un chiodo. Svalutando avverrebbe il contrario, ma cosa importa se poi la vacanza la fai in Grecia che svaluterà anch’essa e forse anche di più?! E soprattutto se i giovani ricominciassero ad avere opportunità di lavoro?!


Bagnai auspica politiche economiche in cui lo Stato riprenda il ruolo che gli compente nella gestione del risparmio e degli investimenti riappropriandosi della politica fiscale e della sovranità monetaria. Investire nella riqualificazione del patrimonio pubblico, messa in sicurezza del territorio, formazione, ambiente, stabilizzazione del precariato. Una sana politica keynesiana per capirci. Energie rinnovabili, ricerca, recupero del digital divide, reti di trasporto locale e urbano, abbattimento dei costi della politica e degli sprechi. Riprendere il controllo della Banca Centrale da parte del Governo significa riprendere il controllo della massa monetaria compresa la sua emissione e l’obbligo per le banche di sottoscrivere il debito pubblico. Controllo della politica fiscale ormai sottomessa a regole che strangolano imprese e famiglie. Quindi, altro che Fiscal Compact occorre passare all’External Compact, dice Bagnai, ossia “un modello di sviluppo basato sulla domanda interna” e sull’equilibrio assoluto della bilancia dei pagamenti (import/export), modello appropriato per garantire la massima occupazione.



Luciano Foresta



Alberto Bagnai
Il tramonto dell'euro
pp.414, euro 17
Imprimatur Editore, 2013




sabato 4 maggio 2013

BCE: controllore o controllato?



Pubblicato su "l?Alambicco" il 15 Febbraio 2013

Banca Centrale, signoraggio e interesse nazionale. Intervista a Giovanni De Gaetanis, commercialista leccese, primo al mondo a vincere una causa contro la Banca Centrale Europea.

Caro Giovanni, nell’approfondire alcuni aspetti del “signoraggio” mi sono imbattuto nel tuo nome a causa di una sentenza del 2005 del Giudice di Pace di Lecce. Tu hai citato in giudizio la BCE, la Banca Centrale Europea, e quindi quale sua “locale articolazione”  la Banca Centrale d’Italia. Il giudice ha condannato la BCE a risarcirti € 87,00 per il “danno derivante dalla sottrazione del reddito di signoraggio”. Ci puoi sintetizzare come è andata?



Il signoraggio è l’insieme dei redditi derivanti dall’emissione monetaria. Storicamente, quando la circolazione era costituita da monete d’oro o d’argento, il sovrano apponendo la sua effige sulle monete ne garantiva il valore dato dalla quantità e purezza dell’oro o argento in esse contenuto. In cambio di questa garanzia il sovrano tratteneva per se una certa quantità di metallo. Il signoraggio consisteva proprio nell’esercizio di questo potere. Con la circolazione di carta moneta mutano le modalità di esercizio del signoraggio, ma non la sua natura, che è quella di un’entrata per lo Stato connessa con l’emissione di moneta. Il valore della moneta non nasce nel momento della emissione, ma nel momento della accettazione come strumento di pagamento, ne consegue che la proprietà della moneta e quindi anche il reddito da emissione deve essere attribuita alle collettività nazionali.
Il CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio n.d.r.), nella causa intentata contro la Banca d’Italia, aveva quantificato  un reddito da signoraggio da redistribuire alla collettività italiana, solo per il periodo 1996-2003, pari a € 5.023.632.491,00 a cui corrisponde una quota per singolo cittadino quantificata in € 87,00.

In seguito la Cassazione ha annullato la sentenza di Lecce, dovendo sintetizzare, per “difetto di giurisdizione” in quanto  “a nessun giudice compete sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane” tra cui “la politica monetaria”, “l’adesione a trattati internazionali” e “la partecipazione ad organismi sopranazionali”. Quindi la Cassazione non è entrata nel merito del giudizio, ma ha dichiarato la materia non pertinente né al giudice ordinario né a quello amministrativo. Di fatto in linea di principio la questione mi sembra che rimanga?!

La questione è ancora aperta, si tenga presente che da molti decenni in tutto il mondo si intentano cause contro le banche centrali. Pare che io sia stato il primo ed ancora l’unico al mondo a vincere una causa di questo genere, ma puntualmente è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 16751 del 2006 nella quale la Suprema Corte, accogliendo il ricorso della Banca d’Italia, ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione, cioè la mancanza per qualsiasi giudice del potere di assumere una decisione di merito in questa materia. Secondo la Cassazione la mia pretesa restitutoria metteva in discussione gli assetti politico-istituzionali e le scelte di politica monetaria adottate dallo Stato. Restano pertanto aperte le questioni di ordine squisitamente politico e tecnico.

Cosa pensi del fatto che la BCE sia partecipata dalle Banche Centrali Nazionali , e quindi anche dalla Banca d’Italia, che pur essendo un ente di diritto pubblico è posseduta attraverso le sue quote da Banche private? In altri termini il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) risponde agli interessi dei popoli europei o ad altro?

Il signoraggio dovrebbe essere una delle fonti con cui lo stato si finanzia. In Italia, invece, poiché il capitale sociale della Banca d’Italia è posseduto per circa il 95% da banche private il reddito da signoraggio va ai privati. E’ evidente quindi che il sistema italiano della banca centrale non risponde agli interessi della collettività. A tal fine sarebbe auspicabile che le quote della Banca d’Italia fossero possedute solo da soggetti pubblici. Questa circostanza risolverebbe l’attuale problema del deficit di vigilanza della Banca d’Italia sulle banche poiché assistiamo al paradosso che il controllato (le banche) è padrone del controllore (la Banca d’Italia).

E qui passiamo ad altra puntata riguardante recenti fatti di cronaca come quello del Monte dei Paschi di Siena e non solo. Ma ci fermiamo!....Magari alla prossima. 


Luciano Foresta
Lcforu

La rivoluzione non russa


Pubblicato da "l'Alambicco il 12 Ottobre 2012


Domande su questioni di ieri che ripropongono un tema sempre attuale. L’eterno interrogativo sul “Che fare?” che si ripropone ancora oggi.

L’intervista di Giancarlo Greco, rappresentante di una generazione venuta “dopo”, si dipana, per mezzo della memoria di Valentino Parlato, in una Storia scritta “prima”.
Un protagonista di una vicenda importante, quella de “il Manifesto”, ripercorre quarant’anni della recente Storia di parte della sinistra Italiana mettendo a nudo intuizioni e limiti di un travaglio politico che, anche se su uno scenario ben diverso, ancora si pone in forme più drammatiche alla sinistra italiana ed europea.

“il Manifesto”, gruppo di intellettuali comunisti, “radiati” e non “espulsi” dal P.C.I., che nel 1969 danno vita alla rivista e poi al quotidiano omonimo, che tentano alleanze con parte di quella che si chiamava “sinistra extraparlamentare” per dare una  nuova “forma partito” al socialismo. “Radiati” perché eretici. Eretici perché alternativi al “socialismo reale”. Intellettuali “organici” non conformi alla linea interventista in Ungheria del ’56, nettamente schierati contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia del ’68, che attraverso l’analisi sociale e del Movimento Operaio rifiorente in quegli anni, perseguirono il rinnovamento a sinistra per adeguarla alle trasformazioni sociali sopraggiunte. “Aprire una ferita feconda” a sinistra per andare a sinistra.
La stessa questione di oggi: rifondare la sinistra a sinistra. O meglio, fermare ed invertire la “deriva” verso il centro avviata dopo il 1989.

Grandi intuizioni dettate da lucide analisi che facevano de “il Manifesto” gli “intellettuali” della sinistra dei primi anni ’70. Analisi che tendevano ad allargare lo spazio politico sulla linea di scontro tra la sinistra storica e parlamentare e la nuova sinistra detta extraparlamentare composta da varie sigle a volte non tutte di ispirazione marxista-leninista o solo marxiana, ma anche libertaria, liberal, radicale. Una posizione, quella de “il Manifesto”, sempre oscillante tra il movimentismo operaista e la necessità spiccatamente leninista di dar forma al partito, alla rappresentanza, in ossequio al bisogno di sentirsi “avanguardia” della classe operaia.

Grande limite quello della sinistra storica non vedere e non accogliere le istanze di rinnovamento poste dai movimenti giovanili e di protesta tra il ’68 ed il ’77.
Gli “intellettuali” de “il Manifesto” intuirono questa necessità ma, a mio parere, non la portarono alle estreme conseguenze. Focalizzarono la fase matura del capitalismo italiano, si convinsero che “…il Partito dovesse interpretare le spinte che venivano dall’esterno (operai e studenti soprattutto) e avviare una fase di profondo cambiamento” invece di avanzare “…le prime esplicite ambizioni di governo.”, ma pensarono, da attenti militanti riformatori del Partito, che i Movimenti e le istanze sociali, civili ed esistenziali che rappresentavano dovessero essere ricondotte all’interno della forma partito, non cogliendo che i Movimenti portavano nelle piazze nuovi disagi allo stato nascente quali il precariato giovanile, i diritti civili ed individuali, la democrazia, il diritto allo studio e la liberazione delle donne, sessuale e delle minoranze. “Non sono mai stato un sessantottino, non ho mai portato l’eschimo e non sono mai stato infatuato della libertà sessuale di quegli anni; non pensavo che si stesse facendo la rivoluzione, ma era un grande momento di trasformazione del paese che andava colto…” –dice Valentino Parlato- ed il PCI era “inadeguato e distante”. I Movimenti degli anni 68/77 offrivano in un crogiuolo infuocato e contraddittorio i temi su cui fondare una moderna sinistra occidentale ed europea  temi che destavano solo un’attenzione fenomenica e non sostanziale. Fu certamente un’occasione sprecata perché comodamente bollata o “criminalizzata”. Riferendosi al Movimento del ’77 dice ancora Valentino Parlato: “Nonostante la posizione critica del nostro giornale verso i teatrini della politica….Io stesso fui diffidente e pessimista circa quei giovani che riempivano le piazze e le strade, e pur considerandoli prodotto naturale della nostra storia precedente, li definì, in uno dei miei articoli, dei “vuoti a perdere”.
Lo sforzo della sinistra intellettuale “radiata” dal PCI e aperta a cogliere i “segni dei tempi”, così come ci si esprimeva in campo ecclesiastico in quegli anni, impegnata ad analizzare il “capitalismo maturo” non poteva arrivare a comprendere i segni della “società post-industriale” che si affacciava con tutte le sue contraddizioni che oggi cominciano a produrre i loro effetti. 


Luciano Foresta
Lucfor